La cassa batteva. Sì, sbatteva contro il vetro, saltando alle buche o ai semplici sassi della strada sterrata. Ma la cassa batteva anche di suo. Batteva il ritmo di una canzona latino-americana, una canzone reggaeton che la faceva sculettare di suo, e dopo una buca sculettava doppio, vibrando e librandosi in quel mezzo secondo di levitazione tra la plastica rovente di Sindy e il vetro impolverato.
Musica, polvere. Cos’altro? Nulla. Solo questo in quel pomeriggio tra Tbilisi e Ganja. Il confine e i suoi ufficiali erano alle spalle, andati, definitivamente. Son bastati pochi sguardi, il visto e una sgasata per liberarsi di loro, che non potevano dirgli niente. In ogni caso, pie e ste non gli avrebbero risposto. Non avrebbero potuto rispondere. In nessun caso.
Yo no sé lo que hacer, a tú a mí me vas a matar…
Mangiava strada e polvere. Liberava potere. Stare seduti e ascoltare una canzone figa con un beat da saltarti addosso. Incredibile come una con una canzone ti senti di dominare il mondo, ti senti potente, ancor più quando percorri una strada dove non c’è un cane se non il tuo compagno a fianco, che anche lui fissa la strada come la guardi tu, con qualche grado di angolazione di differenza solo, ma quello che passa nel cuore è lo stesso, lo stesso beat che suonava quella cassa sexy.
Tú solo piensas en joder y yo quiero algo más…
Poteva sculettare quanto voleva quella cassa. Loro la decisione l’avevano fatta, e se avevano passato la frontiera di sicuro non sarebbe stato un aggeggio un po’ troppo eccitato a fargli cambiare idea. E così se lo dicevano. Se lo dicevano con gli occhi. Ste, alla guida, si girava verso pie, che dopo pochi secondi se ne accorgeva, si girava, lo guardava, e poi entrambi tornavano a guardare la strada con un sorriso, uno di quelli che dice “tu sai perché”.
Sé que él no lo quiere, no quiere amarte…
Le uniche parole erano quelle della cassa. Tra di loro non una. C’era aria, ammirazione, mosche tzò tzò. Ma non c’erano parole.
Quel giorno ne sarebbe stato completamente privo. Lo avevano concordato la sera prima.
-Un giorno senza parlarsi, così – ripeté pie, tra l’ironico e il dubbioso.
-Così – rispose ste. Parliamo 365 giorni l’anno da quanto siamo nati…
-Io non parlavo a due settimane
-Ma rompevi il cazzo. Non devo neanche chiedere a tua madre per immaginare quanto le urlassi e…
-Va bene continua
-Dicevo – riprese ste – che è arrivata l’ora di fare senza della parola. Di fare una sana disintossicazione
-Mica fa male parlare, anzi fa bene, aiuta a sfogarsi, a darsi chiarezza…
-Sì sì, lo so pie. Però non è essenziale. Torniamo – gli disse a una spanna e con la voce bassa e chiara – a come era tantissimo tempo fa, dove gli uomini non parlavano, anzi, ancora prima, dove non c’erano nemmeno gli uomini, ma solo atomi e legami. Io credo che erano connessi eccome, seppur in silenzio
Pie ci pensava su. Ma dopo non molto ci stette.
-Cosa vuoi che sia un giorno alla fine – incalzò.
Erano state dure le prime ore del viaggio. Durissime. La mattina no, quando ci si alza non si ha troppa voglia di dire quello che non si ha da dire al mondo. Ma dopo un po’, inconsciamente, il bisogno della comunicazione orale si fece impellente, fastidioso, fastidiosissimo come la sabbia nelle mutande e le mani legate, e nessun palo vicino. Non era tanto il fatto di non fantasticare su castelli inesistenti, era proprio il non poter dire neanche “occhio alla buca” o “prima freni poi scali”. Quelle frasette si fecero come un boa nella pancia di pie che sentiva l’estremo bisogno di scaricarle da qualche parte. Ma non poteva.