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Avete mai visto un uomo che mangia una clessidra? Probabilmente no, a meno che non abbiate prestato veramente attenzione a un logo molto diffuso tra i libri di scuola: Loescher editore. Questo sempliciotto seduto su una cassapanca si è tolto la tuba per ingoiare una clessidra. Pare piuttosto annoiato. Insomma, mangiare una clessidra non è una cosa che entusiasma. Ho la stessa faccia quando mangio i fagioli borlotti. Scotti. Eppure, nonostante il non entusiasmo, si è tolto il copricapo, in segno di reverenza.

Non lo entusiasma il prepararsi a digerire lo strumento del tempo, ma per lui è una cosa che ha valore. Perché mai lo starà facendo? Rassegnato dalla fugacità della vita, il solo modo per eternare il tempo è sfruttarlo a pieno, tuffarsi in esso, sentirlo. E cosa può rappresentare meglio l’assaporare una cosa se non il mangiarla? Quand’è che dici a una persona “ti sbrano”? Quando dici di un libro “l’ho divorato”? Quando c’è passione, tanta passione. Concettualmente, noi la vediamo nell’atto di divorare, questa passione. Ma non attraverso l’espressione: l’omicino seduto ha la parvenza di essere stanco, stanco di “mangiare”. Vuole di più. Vuole qualcosa che lo sazi per sempre, che sia in grado di dargli l’eternità, ma che non riesce a trovare. Ecco il motivo dell’espressione annoiata e della clessidra. Ma c’è di più.

Il motto che fa da contorno a questa raffigurazione dice “è bello doppo il morire, vivere anchora”. Non penso che chi l’abbia inventato fosse sgrammaticato, ma semplicemente che parlasse una lingua antecedente alla nostra. Dopotutto, sarebbe piuttosto buffo il fatto che un editore di libri di istruzione sbagliasse il motto presente su tutti i propri libri. Ma questo vuol allora dire che al medico non è permesso fumare, come al prete non è permesso peccare? I controsensi fanno parte della vita, e da questo punto di vista sì, l’editore potrebbe essersi sbagliato. Ma nella realtà sappiamo che è il lavoro degli editori quello di pubblicare bene, ossia non solo bene da un punto di vista della sostanza ma anche della forma, cosa che toglie ogni dubbio riguardo all’errata corrige del motto in questione. Guardiamo quindi la sostanza di questa frase.

È bello vivere dopo il morire. Uguale, l’eternità affascina l’uomo. Dietro ogni cosa l’uomo desidera l’infinito. Lo cerca in ogni cosa, nelle relazioni, nelle esperienze. Ecco perché quando finisci un libro hai quel sentimento strano, quasi di angoscia, lo stesso che hai quando ti molli con la ragazza, o lo stesso che hai quando finisci l’università. Una parte di eternità è svanita, perché non siamo abituati per natura a pensare alla fine delle cose, che però c’è, ma in qualche modo inconsciamente siamo portati a ignorarla. E anche se alla fine quel sentimento non ci piace veramente, sotto sotto non ne potremmo farne a meno. Ci piacerebbe un libro che non finisce mai? Ci attrarrebbe una vita veramente senza fine? La fine è ciò che dà sapore alle cose, è il fatto che una cosa è limitata nel tempo che ci dà lo stimolo ad apprezzarla di più. E quando una cosa è scarsa, non infinita, ha più valore. Ecco perché il nostro tempo è importante. Se le giornate fossero di 50 ore e la vita di 1000 anni, sono sicuro che ci annoieremo a morte. Non tanto perché avremmo troppo tempo, ma perché nella nostra testa l’avere troppo tempo ci metterebbe in una disposizione mentale tale da non farcelo assaporare abbastanza perché tanto è infinito, ci sarà sempre tempo per.

Ecco allora la vera ragione di quell’aria stanca di vivere: il nostro omino vorrebbe l’infinito, vorrebbe fottere le lancette dell’orologio, ma dentro di sé rinnega questa volontà perché sa che sarebbe la sua rovina. E il motto, che fa da cornice a questo bel quadretto, ci insegna che la morte fa parte della vita, e che è possibile avere nuova vita anche dopo. Come? Un modo ce lo dice: lasciando agli altri le cose che abbiamo scritto. In altre parole, lasciando una traccia. La nostra traccia

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